FIRST TAG DISPLAYED HERE 17 luglio 2018 7 minuti di lettura

Abbiamo ucciso la Sharing Economy

Scritto da Moneysurfers

    L’umanità è diventata famosa nell’universo per reinventare costantemente la ruota, bruciare la biblioteca di Alessandria, perseguitare gli eretici, gli ebrei, piuttosto che devastare con bombe nucleari intere città. Ultimamente siamo stati incriminati dalla corte universale delle anime per aver ucciso la Sharing Economy. La difesa dichiara che l’accusa confonde pere con trapani. Ma partiamo dall’inizio...

    La differenza fra una pera e un trapano!

    “Quanti di voi posseggono un trapano?”
    Con questa domanda Rachel Botsman, autrice del libro L’ascesa del Consumismo Collaborativo (The rise of Collaborative Consumption), esordì nel 2010 dinanzi al pubblico di TEDxSidney. Ovviamente furono in molti ad alzare la mano.
    “Questo trapano sarà usato circa dai 12 ai 15 minuti in tutta la sua vita. E’ ridicolo, non è vero? Perché quello di cui hai bisogno è il buco, non il trapano. Perché non affittate il trapano? O perché non lo affittate voi ad altre persone e fate qualche soldo da lì?”
    Così Rachel Botsman presentava l’idea della Sharing Economy, Economia della Condivisione, basata sul principio di consumo collaborativo: la risposta ovvia, più acclamata e più interessante per risolvere i problemi economici familiari, nonché quelli ambientali legati agli scarti e all’inquinamento derivante dalla produzione sempre più massiccia di utensili, vestiti e tutti i prodotti che in realtà vengono utilizzati poi raramente dai rispettivi proprietari. La stessa Botsman definisce questo sistema consumistico non come un semplice trend passeggero, ma come “La rivoluzione comportamentale del mercato tradizionale, attraverso la tecnologia di internet, che rende possibile la condivisione in dimensioni e modalità mai viste.” Detto in parole semplici, condivideremo di più e spenderemo di meno, alla faccia del PIL.

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    Ma in cosa consiste questo consumo collaborativo? Si tratterebbe di fatto di un sistema economico basato su mercati peer-to-peer (p2p), in cui gli operatori scambiano prodotti e servizi inutilizzati, gratuitamente o a pagamento, direttamente fra di loro. Forse avrai già sentito il termine p2p quando hai cercato di scaricare film illegalmente da internet utilizzando Torrent, Emule, oppure ancora ad inizio anni 2.000 con Kazam o la musica con Napster. Da pirati del P2P ai salvatori del mondo della sharing economy.
    In termini di teoria economica, la sharing economy rappresenta i un certo senso una deviazione di quella rigida ed accademica differenziazione tra beni pubblici e beni privati, laddove i beni privati si caratterizzano per la loro Escludibilità e Rivalità: un bene è escludibile se io, proprietario, posso impedire ad altri di usarlo (a casa mia entra solo chi invito!); mentre un bene è rivale se due o più soggetti non possono usufruirne contemporaneamente (una pera, per esempio, o una torta, o un trapano per l’appunto).
    Quanto espresso dalla Botsman va oltre la tradizionale classificazione tra i beni e lei riporta il chiaro esempio del trapano. Perché il trapano? Cosa rende un trapano diverso da altri beni rivali ed escludibili? La risposta sta nell’utilità: l’utilità potenziale di un trapano, a differenza di una pera, è vertiginosamente più alta dell’utilità che noi ne traiamo: se così non fosse, dovremmo usarlo ogni giorno fino alla sua totale distruzione! Perché, dunque, non condividere questo surplus di utilità con altri soggetti che necessitano dello stesso bene?
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    Rachel Botsman è fermamente convinta che questo sistema sia la quarta ed ultima fase della Sharing Evolution resa possibile dall’era digitale:

    • Condivisione di informazioni;
    • Connessione tra le persone;
    • Condivisione di idee;
    • Condivisione di assets;

    E sostiene inoltre che il motore di questa economia sia non tanto la moneta, che comunque resta presente, quanto la fiducia tra estranei messi in connessione tra loro. Anche se di fatto, la Botsman si dimentica che anche il valore di una moneta e la sua fruibilità derivano da un atto di fiducia tra persone, lo stato ed altri stati.
    Quanto è stata esatta la previsione della Botsman? Come hanno reagito le persone dinanzi a questa nuova idea? Ma soprattutto che dinamiche ha seguito il mercato? Vediamo alcuni esempi di consumo collaborativo.

    Esempi di Sharing Economy: l’Estero e l’Italia

    Esempi Sharing Economy

    Condivisione o Accessibilità? Criticità dello Sharing

    Abbiamo parlato dell’Economia della Condivisione mettendone in risalto gli aspetti positivi, che non sono solamente di natura sociale o morale (Condividere è un valore umano), ma anche quelli strettamente economici: efficienza allocativa, minimizzazione dei costi e riduzione dell’inquinamento.
    Ma siamo sicuri che la sharing economy si sia sviluppata nei modi espressi da Rachel Botsman? Ogni esperimento di consumo collaborativo ha prodotto effetti positivi? La risposta è no. Molte sono le critiche mosse contro la maniera in cui la sharing economy si è evoluta nell’arco di pochissimo tempo, e riguardano tanto l’aspetto politico/fiscale quanto quello culturale/umano.
    Partendo dalle criticità più tangibili, uno dei problemi emersi quasi immediatamente, tanto in Italia quanto negli altri paesi, è la mancanza di una regolamentazione normativa uniforme a tutti coloro che offrono un determinato servizio: pensate ai “tassisti” di Uber e ai tassisti provvisti di licenza statale; oppure ancora si pensi alle stanze di Airbnb contro i Bed&Breakfast sottoposti ad un regime fiscale meno favorevole. Il lavoro non in regola rappresenta un abbattimento dei costi a favore di alcuni soggetti e a discapito di altri, con conseguenti ed inevitabili casi di concorrenza sleale.
    Siamo abituati a vedere di buon occhio la liberalizzazione di alcune categorie professionali, ma crediamo anche che rappresenti una palese contraddizione l’idea che, all’interno dello stesso spazio economico, più soggetti concorrano in un regime di disparità. Insomma questa sharing economy ci sembra a volte rispecchiare quanto descritto ne “La Fattoria degli Animali” di Orwell, dove la sharing economy è condivisione per tutti, ma per qualcuno è più condivisa di qualcun’altro. La potenza di internet e dei capitali privati, nonché a volte il sistema mafioso-lobbistico (esiste anche in America), ha permesso di sfruttare velocemente pieghe e vuoti normativi per fini puramente economici, privati. Questo è un male? Non crediamo, infatti se questo hacking permette di creare leggi migliori atte a proteggere meglio il consumatore e tutti gli operatori del campo, ben venga. Sappiamo che molte volte l’unico modo per modificare qualcosa per il meglio è passare dalle cattive, piuttosto che dalle buone.
    A tal proposito il governo australiano, con un intervento che riteniamo esemplare, ha stabilito che a partire dal mese di agosto 2015 la “sharing economy” debba essere sottoposta allo stesso regime fiscale di tutti gli altri professionisti che offrono lo stesso servizio nello stesso mercato. Al di là dell’esempio australiano, crediamo che un regime di parità si possa raggiungere in ogni caso, a prescindere da quanto liberali siano le manovre politiche. In parole povere: anche se applichiamo la stessa tassazione a tutti gli operatori di un settore, come la mettiamo con quei soggetti che hanno sostenuto un investimento iniziale – per esempio l’acquisto di una licenza – per entrare nel mercato e che, a distanza di poco tempo, vedono il proprio profitto eroso da una manovra di liberalizzazione? Un’idea potrebbe essere quella di concedere a tali operatori degli sgravi fiscali pianificati nel tempo, così recuperano una posizione di parità rispetto ai concorrenti. Anche lo Stato dovrebbe essere più sharing economy ispirato.
    Naturalmente si potrebbero evidenziare altri punti problematici della sharing economy, come ad esempio l’assenza di controlli e l’asimmetria informativa, che danno luogo a review false e pessimi servizi.
    “Ci sono stati casi in cui Airbnb ha messo prostitute e drogati a casa della gente!”
    Queste le parole di Milo Yiannopoulos, fondatore del magazine online The Kernel, che assume una posizione aspramente contraria alla sharing economy, criticandone la totale mancanza di privacy e la pericolosità dei rapporti commerciali tra perfetti sconosciuti. Senza considerare poi le critiche strettamente morali di chi grida alla “mercificazione dei rapporti” ed agli “ideali trasformati in utili”. Sì, perché la sharing economy si basa sulla fiducia, un bene che ultimamente è molto svalutato. Infatti tramite internet abbiamo imparato a fidarci di più: basta un post su facebook ed una recensione su tripadvisor per giungere a conclusioni. La fiducia sembra costruirsi e crollare molto più velocemente, portando a deviazioni e problematiche mai viste prima nell’umanità. Un caso su tutti è la fiducia data ai bitcoin, con relativa mini bolla speculativa e conseguente scandalo fraudolento... Era sharing economy anche questa?

    The logo of car-sharing service app Uber on a smartphone over a reserved lane for taxis in a street is seen in this photo illustration taken in Madrid on December 10, 2014. A Madrid judge has ordered U.S.-based online car booking company Uber to cease operations in Spain, the latest ban on the popular service. Taxi drivers around the world consider Uber unfairly bypasses local licensing and safety regulations by using the internet to put drivers in touch with passengers.  REUTERS/Sergio Perez  (SPAIN - Tags: LAW TRANSPORT SCIENCE TECHNOLOGY BUSINESS TELECOMS LOGO)

    Sharing is caring

    Con questo simpatico modo di dire anglo-sassone, torniamo al centro della questione e cerchiamo di capire quanto ci siamo allontanati da quello che era il proposito iniziale di Rachel Botsman. Noi money surfers pensiamo, e non siamo gli unici, che il problema non risieda nell’idea primordiale di sharing economy, ma nel modo in cui essa è stata implementata: se da un lato abbiamo esempi positivi di consumo collaborativo come SnapGoods, Neighborrow o Blablacar, dall’altro vi sono colossi imprenditoriali come Uber e Airbnb, i quali producono un ampio profitto e sono ben distanti dai regimi peer-to-peer e la cui chiave di successo è stata semplicemente quella di offrire un servizio già esistente (hotel, taxi, etc.), facilitando l’incontro tra domanda e offerta.
    Praticamente si è passati dall’idea iniziale di condividere beni/servizi al vendere la visibilità e dunque l’accessibilità a determinati beni/servizi. Nell’idea della Botsman c’era una piattaforma che metteva in comunicazione più individui, che erano al tempo stesso sia la domanda che l’offerta (“Oggi ti presto il trapano; domani mi presterai il tosaerba”), e il compito della piattaforma era semplicemente quello di mettere in contatto i soggetti. Col tempo la piattaforma è diventata il mercato, in cui un insieme di soggetti che costituiscono un’offerta ben definita paga la piattaforma, per avere visibilità; dall’altra parte c’è la domanda che richiede questi servizi.
    Badate bene, non critichiamo l’aspetto imprenditoriale dell’idea, ma stiamo descrivendo i motivi per cui imprese come Uber e Airbnb, pur sbandierando lo stendardo della sharing economy, non ne sono dei perfetti esempi.
    Questo significa che non è possibile l’applicazione del consumo collaborativo? Secondo alcuni pessimisti, no. Non manca infatti chi vede l’economia nel suo tradizionale sistema profit-oriented a cui siamo stati abituati e dichiara che non si può parlare di condivisione se si parla di economia e viceversa.
    Noi siamo più ottimisti e crediamo che i fenomeni di “deviazione” della sharing economy a cui abbiamo assistito siano semplicemente espressione di un mercato che si evolve adattandosi ai nuovi mezzi (internet/app), mantenendo comunque le stesse logiche del passato. Perché questo succede? Perché il consumatore non è ancora abbastanza consapevole di quanto egli stesso rappresenti una potenziale offerta di prodotti e servizi. Perché non è educato al consumo, o meglio siamo tutti educati ad una forma di consumismo individuale e per pigrizia (o egoismo) non vediamo la convenienza della condivisione. Non ancora.
    Per questo reputiamo che parlare di Economia di condivisione sia comunque positivo: perché fra tanti esperimenti che vengono portati avanti, ve ne sono alcuni che rispecchiano con fedeltà il principio di consumo collaborativo. A mio modo di vedere ci dimentichiamo troppo spesso che Economia è gestione delle risorse, prima ancora che realizzazione del profitto. In tal senso le crisi economiche, come quella vissuta negli ultimi anni, ci mettono alle strette, costringendoci ad inventare nuovi modelli di efficienza allocativa. Più passa il tempo e più ci rendiamo conto che l’economia di collaborazione massimizza il benessere congiunto molto più della competizione, la quale produce effetti positivi per lo più nel breve periodo. Crediamo infine che l’idea di consumismo collaborativo si sposi perfettamente con le nuove cause che hanno già iniziato a farsi strada nella società: prima fra tutte l’eco-sostenibilità.
    Dunque, nonostante le digressioni a cui assistiamo, non possiamo abbandonare l’idea dell’economia collaborativa, perché può portare, anche in Italia, opportunità per le aziende e le amministrazioni locali. Neanche a dirlo, negli USA 15 sindaci si sono già impegnati, firmando un documento che prevede la promessa di rendere i loro comuni più “collaborativi”.
    Cosa succederebbe inoltre se anche le forme societarie fossero principalmente collaborative, ovvero avessero come intento principale quello di riversare parte dei guadagni nella società e nell’ambiente. Si eviterebbero queste deviazioni dovute al profitto a tutti i costi?
    Noi di MoneySurfers.com crediamo che questa sia la situazione finale del capitalismo senza scrupoli, punto di partenza per creare una nuova era dell’oro, basata sul “coscienzismo”. Queste forme societarie già esistono: parliamo di aziende ad interesse sociale, come le Community Interest Company inglesi (noi abbiamo fondato la nostra CIC, Forex Nation), oppure le B Corporation Americane, nonché il movimento italiano delle CSR (Responsabilità Sociale d’Impresa). Un modo nuovo di vedere le imprese, come mezzo di miglioramento sociale, piuttosto che come veicolo di solo profitto. A prescindere dalla forma societaria che tu voglia dare alla tua futura azienda, è comunque necessario che tu abbia le adeguate nozioni di business. Noi abbiamo pensato anche a questo, ideando un corso, SurfingTheBiz®, tenuto da un guru dell'imprenditoria (ha aiutato a sviluppare più di 30 start up, compresa la nostra). Puoi testare la qualità del corso, guardando GRATUITAMENTE, le prime lezioni!
    La giuria della corte universale delle anime esprime il verdetto: Assolti per buoni propositi. A patto che mettiamo in atto i seguenti consigli:

    • Condividiamo questo articolo per elevare conoscenza e consapevolezza;
    • Creiamo più aziende Socialmente interessate, promuovendo con la pratica la sharing economy del futuro e non solo con le belle parole;
    • Scendiamo in campo nel nostro quartiere e condividiamo i tuoi utensili inutilizzati con i nostri vicini. Salviamo il mondo e creiamo nuovi solidi contatti umani al di fuori dell’effimero mondo della rete. La moneta reale è la fiducia tra le persone;
    • Informiamoci meglio ed informiamoci prima su ciò che accade intorno a noi. Cerchiamo di essere FILTRI delle innovazioni provenienti dall’estero e di innovare a nostra volta. Abbiamo la possibilità di valutare a posteriori: perché restare immobili o imitare passivamente

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