Tutti conosciamo almeno un "workaholic", ossia un maniaco del lavoro. Arriviamo presto in ufficio e lui o lei, è già lì. Quando ce ne andiamo la sera non si è ancora staccato dal monitor del computer, e ci chiediamo quando mai tornerà a casa, se troverà il tempo per mangiare, concedersi un film o due chiacchiere su un qualsiasi argomento che non sia il lavoro. Ci domandiamo se ha una vita extra lavorativa, se si diverte e se è felice.
La verità è che vederlo ci fa stare male, perché insinua nella nostra mente un dubbio. Ci chiediamo: dovrei lavorare più del necessario? Fare ore extra come il mio collega? Lui è un lavoratore migliore di me? Ebbene, la risposta è, generalmente, no.
Il termine “workaholic”, ossia “ubriaco di lavoro”, viene coniato nel 1971 da Wayne Edward Oates, un professore di religione, che lo definisce come un soggetto con una pulsione o un bisogno di lavorare incessantemente. Questo desiderio compulsivo, che ha i caratteri della dipendenza, è talmente forte da comprometterne la salute, la socialità e la felicità.
Come un alcolizzato non trova piacere alcuno nella vita, fatta esclusione per il bere, un workaholic trova piacere soltanto nel lavoro, e si nega tutto il resto. E’ dipendente da una sostanza sempre reperibile, che non solo è gratis, ma gli procura pure denaro. Senza contare che è socialmente accettata e rispettata.
I casi estremi sono presenti un po’ in tutto il mondo, ma abbondano in Giappone, dove 200 persone all’anno muoiono per troppo lavoro (e la cosa ha pure un nome: Karoshi). Per darci un’idea basta pensare che in Giappone ci sono 143 posti di lavoro ogni 100 persone. E che il governo per arginare la folle quantità di straordinari usualmente richiesti dalle aziende, ha dovuto mettere un tetto massimo di 60 ore a settimane, prorogabili solo in casi estremi a 100 ore alla settimana. Sono numeri che ci sembrano folli? Questo perché nonostante i numerosi studi condotti sul fenomeno, il “workaholism” è ancora relativamente poco conosciuto in Italia (ne sarebbe colpito, a livello clinico, il 6% di noi).
Ora, secondo l’antropologo Marvin Harris, un tempo gli uomini lavoravano due ore al giorno, che venivano impiegate cacciando per l’intera tribù. Poi le ore sono diventate 6 con l’agricoltura, e la situazione è andata peggiorando con l’industria. Oggi siamo più o meno stabili sulle 8 ore al giorno, che però molto spesso diventano 10-12 o più, soprattutto per manager, imprenditori e liberi professionisti. L’Atlantic in questo bellissimo articolo dice addirittura che lavorare troppo sarebbe lo status symbol della nostra epoca. Esatto, per quanto può sembrare assurdo. Un tempo essere ricchi significava non dover lavorare, o potersi permettere di lavorare meno. Oggi sono proprio i più ricchi a lavorare allo sfinimento e rinunciare volontariamente al tempo libero.
La domanda da un milione di dollari è: a cosa serve essere ricchi se all’aumentare della nostra ricchezza aumenta anche la nostra schiavitù dal lavoro?
Innanzitutto capiamoci: lo status symbol al quale alcuni mirerebbero è essere perennemente impegnati o sembrare perennemente impegnati? Sì, perché c'è una differenza. Silvia Bellezza, professoressa di marketing alla Columbia Business School, ha condotto un esperimento nel quale ha chiesto a un gruppo di persone di postare sui social stati in cui affermavano quanto fossero perennemente impegnate, chiedendo ad altre di scrivere che avevano invece molto tempo libero e una vita più tranquilla. Ebbene, le persone che affermavano di essere impegnatissime venivano percepite dai loro amici e conoscenti come maggiormente benestanti. Se pensate che sia un meccanismo malato avete completamente ragione. Però per una volta lo possiamo dire: siamo (per fortuna) in controtendenza con gli americani. La ricerca condotta negli Stati Uniti, ha intatti scoperto che in Italia il fenomeno esiste, ma è molto meno radicato che oltreoceano. Cioè? Diamo più valore al tempo, al benessere e allo stare insieme. Sappiamo quanto è prezioso e quanto sia bello potersi permettere un bene per definizione scarso.
Ciò è positivo, perché la “produttività” (se la intendiamo come rapporto tra risultati ottenuti e tempo impiegato per raggiungerli), così come la ricchezza, aumenta per chi è ricco dentro e conosce bene il valore del tempo. Sì, perché svalutarlo è stupido e significa svalutare di conseguenza noi stessi, e se valiamo di meno saremo anche meno ricchi.
Opposto all’ubriaco di lavoro che, spinto da una vera e propria dipendenza o vuoto interiore, si crea problemi da risolvere per tenersi impegnato e “bruciare” il proprio tempo, oppure a chi vede nel mostrarsi impegnato una sorta di status symbol per sembrare più ricco, noi opponiamo una cultura del lavoro smart (intelligente), da Money Surfer.
Per fortuna c’è già una rivoluzione in atto in questa direzione. Larry Page, il numero 1 di Google, ha le idee chiare a riguardo: “per essere felici bisogna lavorare meno”. Richard Branson, magnate a capo dell’impero discografico della Virgin, ha addirittura abolito l’orario di lavoro per i propri dipendenti. Amazon ha recentemente introdotto incentivi al lavoro part-time, e Netflix non tiene conto dei giorni di vacanza presi dai propri lavoratori. E noi? Noi diciamo “work sucks, let’s surf”. E lo diciamo perché il lavoro deve essere sempre più un mezzo volontario per realizzare le nostre passioni, e non schiavitù o dipendenza finalizzata ad arricchirci finanziariamente e impoverirci spiritualmente. E come possiamo pensare che la dipendenza da qualcosa ci renda realmente felici?
Vi proponiamo quindi un esercizio pratico. Così come siamo abituati a fare un rendiconto degli obiettivi lavorativi raggiunti ogni giorno, settimana o mese, proviamo a porci questa semplice ma fondamentale domanda: quanto tempo ho dedicato oggi a me stesso e a ciò che amo? Quanto tempo mi sono concesso per essere felice?
Da studi condotti sul campo, emerge che un workaholic si riconosce per queste 3 caratteristiche:
1) Passa tantissimo tempo al lavoro anche quando può scegliere di non farlo. Rinuncia a tempo libero e famiglia per lavorare.
2) Quando non sta lavorando, sta pensando al lavoro.
3) Lavora più di quanto è richiesto dal lavoro stesso, e più di quanto gli è necessario per stare bene economicamente.
Noi ti invitiamo a prendere questi 3 punti e ribaltarli. Lavora in armonia con te stesso, applicati per raggiungere l’indipendenza finanziaria in modo intelligente, dando al tuo tempo l’immenso valore che dovrebbe avere. E' importante, ora più che mai, rieducare noi stessi alla felicità. Non dimenticare mai che, per dirla con le parole di John Lennon: il tempo che ti sarà piaciuto sprecare, non sarà tempo sprecato.
Alla prossima onda.
(Foto di Herval)
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